Lucio Pompili ha lo spirito del fondatore, è stato scritto in passato. Giusto, giustissimo, ma occorre un aggiornamento: oggi ha lo spirito del rifondatore, lui uomo libero da sempre, adesso con tanta voglia di rimettersi in gioco senza guardare in faccia a nessuno. “Dico quello che penso... Faccio quello che dico...”, è uno dei suoi ultimi post su Facebook, corredato da un’immagine che lo ritrae con tanto di forcone in mano, d’altra parte si definisce “contadino di giorno e cuoco di notte”. Il 2015 non sarà un anno come gli altri per lo chef marchigiano: compirà 60 anni d’età, 45 di attività, 30 di Symposium a Cartoceto – il 10 agosto, auguri in anticipo -, 25 dall’ambita stella tramontata proprio nei mesi scorsi, «ho telefonato a Massimo (Bottura, ndr): “Tu che ne hai tante, me ne presti qualcuna?”», perché il sorriso non manca quasi mai sul suo volto, a stemperare questa volta un po’ di rabbia, una certa delusione e tanta voglia di tornare a scattare, «cerco un’altra strada e la troverò». Perché quando il gioco si fa serio... «I prossimi mesi saranno decisivi –spiega – C’è l’Expo, una straordinaria occasione per accumulare energie idee pensieri, per discutere e rinnovare la cucina italiana. Dobbiamo uscire dalla spirale di certe telefonate tra colleghi, “quanti soldi hai perso?”. Occorre pensare al futuro sulle basi della grande tradizione regionale, nostra croce e delizia: siamo il Paese con 850 varietà di ulivi, la Spagna ne ha 200; le Marche producono 400 tipi di grano, poi arriva un ogm cinese che costa la metà e ci sbaraglia. Penso che noi cuochi si debba capire di avere una responsabilità nei confronti delle fatiche dei contadini, siamo messaggeri della terra. E dobbiamo darci nuove basi, riscrivere le formule dell’alta cucina perché quella che conosciamo è morta». Si parte da tre concetti, secondo Pompili. Qualità. Semplicità. Prodotto.
E’ la versione 2.0 delle linee che hanno sempre guidato l’attività di un uomo che 7 lustri fa contribuiva a gettare le basi della nuova (allora) tavola italiana, dialogando coi pochi delle generazioni precedenti coi quali poteva rapportarsi: i Peppino Cantarelli, i Gualtiero Marchesi, i Franco Colombani. Era il momento in cui prendeva le redini del ristorante aperto dal padre, la Posta Vecchia di Calcinelli, «dove si mangiavano fagioli e porchetta, tagliatelle e carne alla griglia», ricorda, e percorreva tutta la regione con la sua Fiat 128 verde iniziando a costruire quella rete di fornitori, piccoli agricoltori e allevatori, che lui ha sostanzialmente salvato dall’estinzione, fondandovi nel contempo le basi del Symposium di Cartoceto.
E concependo un km zero ante litteram, “l’orto dello chef” quando ancora non faceva notizia: oggi ha 7 ettari tra uliveti, vigne, terreni coltivati a ortaggi, con 3 ettari dedicati agli animali, «a Natale abbiamo preparato un’insalata dei nostri capponi alla maniera di Bartolomeo Scappi (famoso cuoco del XVI secolo, ndr)». E poi ci sono i cinghiali allevati allo stato semibrado, «con loro è un continuo rodeo» e ne va particolarmente orgoglioso, «abbiamo iniziato noi, ora li allevano in 16, solo nelle Marche».
Un precursore vero. Che, dicevamo, cerca una nuova strada, per sé e per la nostra cucina, magari sperando che l’ultima delle sue quattro figlie, Isotta, 13 anni, scopra la vocazione («S’è già inventata un piatto, Frittata all’improvviso, con quello che trova nell’orto. Da mettere in carta», ridacchia), mentre già le altre tre gli danno una mano, insieme alla moglie Cristina.
Per la verità una direzione l’ha già trovata, conduce a Roma («Un segno del destino: ho antenati capitolini»), alla corte di Oscar Farinetti, «ci siamo conosciuti qualche tempo fa, lui è un amico di chi, come me, vuole difendere i nostri produttori. Mi ha chiesto: “Qui tutti sono titubanti a mettersi in gioco. Vuoi portare i tuoi piatti marchigiani da me, a Eataly Roma?”». Risposta: assolutamente sì, «se c’è da lavorare non mi tiro indietro». Una prima prova nel dicembre 2013, ora sei mesi consecutivi, iniziati a novembre e che proseguiranno fino a fine aprile, già con grande successo, in una “locanda” che porta il suo nome all’interno del food store, «d’altra parte a Roma ci sono 400mila marchigiani, se calcoliamo anche la seconda generazione. Vengono da me come a trovare un parente». Lucio inizialmente ha avuto in gestione quello che era “l’angolo delle verdure” e che lui ha presto popolato anche «di tutto quel che pascola attorno ad esse: anatre, conigli… Poi anche i miei cinghialetti, la selvaggina, le beccacce, le lepri, i fagiani, le anatre selvatiche... E i nostri straordinari salumi, me li faccio dare da tre contadini di Borgo Pace, sull’Alpe della Luna... Sì, ho un po’ stravolto la situazione, ma che ci posso fare se il piatto più richiesto sono gli Gnocchi con l’anitra? Massimo rispetto per i vegetariani, però l’uomo, dopo che raccoglitore, è stato cacciatore», altro sorriso. Ode alla carne, insomma, poi però ti racconta con evidente passione quel nuovo piatto che ha creato, «è bio e macrobiotico, con verdure, riso integrale e ricottina di bufala. Leggerissimo, ma sazia, con sapore, perché so come prepararlo». Ecco, un grande cuoco, senza barriere mentali. Sessant’anni, una vitalità da fare invidia.
Carlo Passera