Quando gli chiediamo se davvero si sia fatto tatuare una piantina di basilico lungo tutta la schiena, quasi si offende: «Basilico? Ho anche un caciocavallo per chiappa, poi pomodori, aglio, peperoncino, polpi, alici, arance, fichi..!».
Un intero mercato… «Una trentina di tattoo in tutto. Due estati fa ero con mia figlia Silvia al mare, eravamo in costume, lei si avvicina e mi bisbiglia all’orecchio: “Papà, quella signora ti sta guardando insistentemente il basilico”». Risata e spiegazione: «A una certa età le stronzate sono lecite, no?», e si riferisce ai suoi modi bizzarri di 65enne stralunato, non all’ingenuità della piccola. Quando abbiamo pensato di intervistare Andy Luotto, credevamo avremmo avuto a che fare con un attore che si è dato alla cucina. Nossignore: è un cuoco che i fornelli hanno prestato pro tempore alla televisione, giusto il tempo di entrare nell’immaginario collettivo con Renzo Arbore e L’altra domenica (1976) o anticipare un po’ i tempi (bui), quando in Quelli della notte (1985) dovette smettere i panni dell’arabo Harmand per le proteste e le minacce di alcuni rappresentanti del mondo islamico. Il punto che lui è chef nell’anima, «di più: nel dna. Cuochi si nasce, senza sentire questa passione il mestiere sarebbe solo fatica. Io devo ringraziare mio padre (Eugene, di origini sicilian-piemontesi, grande doppiatore-sottotitolatore di film italiani per il mercato in lingua inglese, ndr), era molto sensibile al cibo.
Lo sei diventato anche tu ben presto… «Ho sempre cucinato. Ero ancora a New York, dove sono nato: mia mamma Beatrice Boccalatte, monferrina (ma ora vive ad Alba, ndr), era scienziata e con cinque lauree, tra ricerca e insegnamento non aveva tempo, così mi mettevo ai fornelli io. Cucinai anche per mantenermi all’università».
A proposito: sei diplomato all’Alberghiero.
«Bisogna studiare per diventare cuoco, non basta l’indole. Era il 1979-80, avevo 30 anni e da poco ero venuto in Italia. I miei compagni il giorno prima mi vedevano in televisione a fare il “cugino americano”, il giorno dopo nelle aule dell’Alberghiero di Castellana Grotte. Molto buffo. Il mio insegnante era il cavalier Angelo Consoli. Mi fece imparare due comandamenti: primo, “Trova buone materie prime”, il che significa stagionalità, territorio, eccetera; secondo, “Scaldale”, ossia lavorale il minimo indispensabile».
Nel tuo primo libro, Faccia da Chef, del 2011, proponi i 10 comandamenti del cuoco e…
Mi stoppa: «Non sono comandamenti, ma “comangiamenti”».
Va bene. Terzo comangiamento: “Ricordati i piatti che hai mangiato, sia buoni che cattivi”. Dimmene uno buono e uno cattivo nella tua memoria, ma di autore.
«Il buono: le straordinarie Orecchiette con le cime di rapa di Antonella Ricci, de Al Fornello da Ricci di Ceglie Messapica (Br). Paradosso: suo marito Vinod è delle Mauritius, ma le prepara ancora meglio!».
E il piatto memorabilmente pessimo?
Per la prima e l’unica volta si fa quasi serioso: «Beh, mi dispiace fare il nome. Comunque è un due stelle molto popolare, forse il più popolare».
Fa pubblicità per le patatine?
«Questo lo dice lei. Comunque ero a un suo corso di cucina, e ha sbagliato due piatti. Proprio tecnicamente, non va a pareri».
Tu invece cosa sai fare?
«So fare poco, ma quel poco con passione. Ho avuto maestri importanti: Enrico Derflingher, Tonino Verro… Prediligo comunque la cucina povera, di stagione, con molta verdura. Tra brasato e bagna càuda, scelgo la seconda. La so anche cucinare bene… Quante risate quella volta che la preparai in Sicilia!».
Racconta.
«Ero stato ingaggiato per uno show cooking, una serata dedicata alla cottura a bassa temperatura. Però c’era mare grosso e la nave con tutti i miei macchinari non si era mossa dal porto di Napoli. Gli organizzatori facevano pressione: “Luotto, l’abbiamo pagata, ora deve cucinarci qualcosa”. Si era vicino a Trapani: lì trovi lo straordinario aglio rosso di Nubia, le alici di Sciacca, poi grande extravergine e verdure fantastiche… Così improvvisai una bagna càuda per cento persone, raccontando che si trattava di un’antica ricetta messinese che avevo fortunosamente recuperato. E alcuni dei commensali confermavano, dicendo che si ricordavano ancora di quando la loro nonna la preparava tanti anni prima… D’altra parte, è o non è un piatto molto terrone?».
E’ quello che preferisci?
«Beh, lo spaghetto al pomodoro ha una semplicità irraggiungibile».
Prima hai parlato dei “macchinari rimasti a Napoli”... Usi tanta tecnologia in cucina?
«Il recupero della tradizione non è contro la tecnologia, che preserva igiene e sapore: molto meglio delle scatole piene di conservanti. Utilizzo la bassa temperatura, il sottovuoto, non l’azoto perché non serve a nulla. Il roner? Superato. Trovo che uno come Massimo Bottura sia straordinario… e poi lui non fa chimica. Certo, non la penso allo stesso modo…».
E come la pensi?
«Penso che non esista più il pranzo della domenica. Penso che sia venuta meno la capacità di fare la spesa. Sono scomparsi i “piccoli spacciatori”, come li chiamo io: i negozianti-artigiani che ti consigliavano il taglio migliore di carne, quel formaggio straordinario, le verdure più fresche. Bisogna tornare a toccare la terra. Quando avevo 40 anni tornai dal mio insegnante Consoli, quasi novantenne, e gli chiesi di darmi nuovi strumenti di conoscenza. Non mi spiegò nulla di tecnologico, ma mi portò sulle barche dei pescatori, nei campi, nei caseifici».
Avevi un ristorante a Sutri, ma ora è chiuso. Pareva dovessi ricominciare in un locale di Frascati, ma... Come andò?
«Arrivai: c’erano le celle frigorifere piene di roba di dubbia qualità e gente incompetente nella brigata. Mi chiesero subito di preparare venti diversi menu per i matrimonio, tipo chiavi in mano. Volevo fare una bella inaugurazione, pensavo a due serate da 150 commensali ciascuna: mi volevano imporre un’unica da 600 persone. Scappai il giorno prima».
Ora sei “cuoco free lance”, cucini dove ti chiamano. Esperienza affascinante?
«C’è la crisi anche qui: cucinavo sempre a Capodanno, questa volta sono rimasto a casa. Le richieste ci sono state, intendiamoci: ti contattano, ti spiegano che il budget è 40 euro a persona. Va bene, invece di usare ingredienti costosi propongo le alici, il pancotto… No, vogliono gamberoni, ovviamente surgelati, e di non so quale provenienza. No, non accetto lavori se non interessa la qualità».
Hai anche fatto cucina in tv, una vera moda oggi... Cosa ne pensi?
«Tutto il male possibile. Il cibo è divertimento, socialità, risate, cultura. In televisione le uniche parole che vanno forte è “disastro”, “merda”, vedo aspiranti chef in lacrime… Non mi piace».
Luotto prosegue con i suoi corsi alla St. John International University di Vinovo, Torino, («Insegno il cibo e l’arte») e sarà ospite di Eataly Roma per una serie d’incontri. Il primo questa mattina, dedicato al brunch, ma ne sta preparando uno sulle polpette che lo gasa moltissimo, «sto studiando da un anno, so tutto sulle polpette da Trento a Canicattì».
Carlo Passera