«Siamo gente semplice cui piace fare complesse», strana, fertile alchimia di preparazione e creatività, un’informale fantasia al potere che dà vita a un modello di business sulla bocca (e tra le fauci) di molti: la ristorazione targata Eataly. Parlarne con la persona che ne è responsabile per l’Italia, Piero Alciati, 52 anni, significa immergersi in una dimensione che richiama intanto la genuinità della provincia: «Ho sempre fatto il cameriere» dice con una punta di ironia l’erede – coi fratelli Ugo e Andrea – di una dinastia avviata da Guido Alciati, per tutti "Guido da Costigliole", e Lidia, la Signora del plin. Però questa di cui trattiamo non è una provincia chiusa, asfittica: al contrario, cova nel proprio ventre menti di imprevedibile visionarietà: «Ne ho conosciute tre – spiega Piero – Il primo era mio padre, vedeva sempre più avanti. Il secondo, Carlin Petrini: mi raccontò l’Università di Pollenzo quando sembrava solo il sogno di un pazzo». Poi c’è Oscar Farinetti, il rapporto col quale nasce casualmente, «io in sala, lui cliente; mi chiese se ero interessato a un progetto di ristorazione diverso». Era il 2005, «mi ha rapito la sua visione di un nuovo mondo» dove alta cucina e “alti cibi” –un claim per il marchio – vanno a braccetto.
E’ questo il brodo di coltura in cui ha preso avvio un modello di ristorazione, che punta alla qualità, aperto al grande pubblico, basato sull’informalità e «sulla materia prima che si vende proprio lì a fianco, al banco del macellaio, a quello del pesce». La carne come segmento forte, grazie a un altro precorritore, Sergio Capaldo de La Granda, «che ha immaginato una filiera retta da un disciplinare diventato Presidio Slow Food». Oltre Feuerbach: non più “siamo ciò che mangiamo”, bensì “siamo ciò che mangia ciò che mangiamo”.
L’alta ristorazione è il necessario completamento di un sistema in cui comunque quella “di prodotto”, easy, vale circa l’86%. Eppure i grandi chef sono funzionali a un meccanismo che gira a meraviglia: «Quante volte abbiamo avuto un ristorante stellato dentro a un “supermercato”? Avremo mille difetti, ma abbiamo sempre mirato a portare il basso verso l’alto, non viceversa». Nelle scelte per le proprie cucine d’autore Eataly si muove in modo flessibile. Convivono così personalità diverse, quelle già affermate - i Vivalda a Torino, Viviana Varese a Milano… – e giovani su cui puntare, «Antonio Bufi, a Bari, è bravissimo, va a lavorare in mare col suo gozzo...». Poi c’è l’astro nascente, Enrico Panero, «arrivò dall’Alberghiero di Mondovì a fare uno stage da me, al Guido di Pollenzo, chiedeva di poter imparare anche fuori orario, lo lasciavamo a mettere le meringhe dentro al pirottino». Ora è all’Eataly Firenze. Bottura ha aperto a Istanbul («Lui è come noi») il suo Ristorante Italia e da novembre un altro tre stelle, Niko Romito, ha aperto il suo ristorante-laboratorio Spazio al terzo piano di Eataly Roma.
Nel futuro c’è un nuovo momento formativo, «che non sarà però una scuola», più che altro una sorta di approfondimento, gli “Stati Generali” dell’alta cucina del brand, con incontri periodici a Fontanafredda, il cuore di Eataly ma anche il luogo dove gli Alciati hanno trasferito il loro ristorante Guido: «Qui Bufi spiegherà a Panero come trattare al meglio un polpo, Panero a Bufi come lavorare il tartufo, e così via». Sinergie, confronti, con un obiettivo: crescere. Sempre.
Carlo Passera